Memorie di un ciclista professionista
Io ero un velocista*. Ogni anno consisteva in 365 giorni di sacrifici per 20 secondi di puro godimento e poi… si ripartiva da capo. Niente scuse, imparavi a dover prendere decisioni sotto pressione in un millesimo di secondo, sgomitare, evitare le cadute, ad assumerti le tue responsabilità nelle sconfitte e nelle vittorie… Imparavi a non trovare scuse, a impegnarti di più senza trovare alibi. Perché il ciclismo è vita amplificata.
Ritrovo il diario dei ricordi di carriera e metto assieme qualche appunto che avevo scritto a matita durante una corsa a tappe in Argentina. Un ricordo che fa capire cosa prova un velocista nelle tappe di salita. Una gara nella gara, spesso in antitesi con le telecronache e lontana dalle luci dei riflettori.
‘Oggi parto così, un po’ meno grintoso del solito ma consapevole che sono un professionista e amo fare il mio lavoro con la massima serietà. Le mie aspettative odierne sono sicuramente antitetiche con quelle di molti corridori del gruppo con la muscolatura delle gambe paragonabile a quella delle mie braccia. Guardo la cartina della corsa: si va da Estancia Grande a Mirador Portero. Già il nome Mirador mi fa girare…
Si parte. La tappa è lunga 168 km. Dal km 30 ci si inerpica in salita fino a 2100 m per scollinare al km 60. Dopodiché è tutto un saliscendi fino alla salita finale, lunga 7 km.
All’imbocco della terribile salita, giovani carneadi belligeranti cercano di tenere il ritmo del gruppo che è scosso dalle accelerate dei colombiani. Io, conoscendo le mie caratteristiche, non accenno alcuna reazione e mi lascio scivolare quasi in ultima posizione per guardare in faccia come sono messi i miei pari stazza, quelli dai 75 kg in su. Da quel momento in poi diventa un danzare sui pedali, una tecnica sopraffina: rallentare quando la strada sale, accelerare gradualmente quando scende senza mai perdersi d’animo o farsi prendere dal panico quando il gruppo scappa via, mettersi nel lato giusto della strada per tenere coperti tutti dal vento, fare gruppo.
Lungo la subida raccatto parecchi corridori che avevano peccato di zelo nella parte iniziale.
Testa bassa e via, concentrati, ogni centimetro di strada risparmiato nelle trattorie si traduce in secondi in meno da recuperare. Inizia la discesa, non c’è vegetazione e ormai siamo abituati al vento forte che porta via la ruota anteriore ad alto profilo. Posizione da moto mondiale e via 80, 90, 100 km orari: peccato non si riesca ad andare più forte! Le curve sono tutte al limite (con gli anni abbiamo fatto di necessità virtù).
Finita la discesa mi riguardo attorno: il gruppo è quello giusto. Pancia a terra, mutismo e grande professionalità, giriamo in doppia fila a 60 km/h fissi, fa male dappertutto ma non c’è tempo per pensarci, continuiamo così, testardi, finché a 50 km dal traguardo rientriamo in gruppo. Parlo col direttore: oggi il nostro scalatore si fa la corsa.
Mi carico di borracce e via di rimonta sul gruppo. I compagni hanno sete. Inizia la lotta e ci schieriamo per tenere davanti il nostro capitano, c’è un vento fortissimo, le gambe esplodono, mi brucia la gola, salivazione azzerata.
Ma non importa.
La velocità sale all’impazzata, il rischio caduta aumenta in maniera esponenziale, il gruppo è tutto in fila. È molto importante che il proprio capitano di giornata prenda la salita davanti.
Mi dico: ‘Dai, Angelo, un ultimo sforzo’. Chiamo l’ammiraglia per riempirmi un’ultima volta le tasche di borracce e zuccheri, rimonto il gruppo anche se il vento sembra un muro e per oggi ho finito il mio lavoro: posso fare l’ultima salita tranquillo, ovvero quasi col massimo impegno perché più piano di così mi dovrei fermare.
Mi fa male la testa dagli sforzi ma sono contento, la prestazione del nostro scalatore è stata eccellente. Non cambia molto chi di noi ha vinto: per il momento sono i radicali liberi che la fanno da padrona nel mio corpo quindi nei miei sentimenti.
‘L’arrivo è a 18 km dall’hotel quindi perché non tornare in bici?’, intima il direttore sportivo. Così oggi i chilometri diventano 193 e i metri di dislivello 2400.
Questa è la giornata tranquilla della vita del gruppo. Quelle giornatine in cui gli addetti al lavoro dicono: ‘Beh, dai, ieri i velocisti hanno fatto gruppetto, hanno recuperato: mancavano solo brioches e cappuccino’.
Tornando all’hotel con la testa che inizia a girarmi per un principio di crisi ipoglicemica ho modo di dare un’occhiata alla periferia di San Luis.
Molti bambini scalzi giocano con un simil-pallone tra case di lamiera e vie sterrate. Lanciare una borraccia e vedere come hanno sorriso è stato il momento più bello della giornata.
Adesso sono in camera con il mio compagno e stiamo commentando la tappa: ‘Angelo, quando i colombiani mi superavano in salita mi facevano fischiare le orecchie e quando mi hanno detto che appartengono alla nazionale di pista volevo fermarmi; per fortuna che in discesa, quando ho attaccato, ho trovato un brasiliano che faceva le curve come se avesse avuto una bici da donna col cestino davanti e mi sono tirato su di morale’.
Domani avremo la cronometro e troverò la grinta sparandomi nelle orecchie un po’ di musica metal prima della partenza’.
*Angelo Furlan è stato ciclista professionista dal 2000 al 2013
Credit cover: @Giacomo Podetti Photo
Federica Gallo - 2023-04-03 22:29:45