Luca Sacchi e il triathlon italiano: l’intervista al campione di nuoto e telecronista Rai
Luca Sacchi, ex nuotatore, telecronista Rai e presidente della DDS di Settimo Milanese, ha concesso al sito della Federazione Italiana TRIathlon un’intervista in cui esprime la propria opinione sul nuovo approccio tecnico della Federazione. Sentiamo che cosa pensa il bronzo olimpico di Barcellona ’92 primatista mondiale dei 400 misti sul Programma Olimpico della Fitri. Come […]
Luca Sacchi, ex nuotatore, telecronista Rai e presidente della DDS di Settimo Milanese, ha concesso al sito della Federazione Italiana TRIathlon un’intervista in cui esprime la propria opinione sul nuovo approccio tecnico della Federazione. Sentiamo che cosa pensa il bronzo olimpico di Barcellona ’92 primatista mondiale dei 400 misti sul Programma Olimpico della Fitri.
Come vede questo nuovo metodo di lavoro dell’alto livello, in particolare facendo riferimento agli squad federali?
“Mi piace molto, apprezzo il sistema degli squad per diversi motivi. Vengono incentivati i gruppi di lavoro: si uniscono le forze per creare qualcosa di importante, e il lavoro quotidiano è costantemente stimolato. Non importa che questa opportunità venga cavalcata dagli stessi club o dai singoli atleti, l’importante è che l’obiettivo sia quello di essere competitivi a livello mondiale”.
Quanto è importante il confronto quotidiano ad alto livello?
“Risulta indispensabile: non ci deve essere il timore del confronto con atleti più forti perché questo è il sistema vincente, non solo per il presente, ma soprattutto per il futuro. Bisogna essere curiosi, avere voglia di scoprire e sperimentare nuovi metodi e trovo che questa contaminazione sia importante perché gli atleti di adesso saranno gli allenatori del futuro”.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione, ma dove può arrivare il sistema italiano?
“Sembra che il movimento italiano si porti dietro una chiusura che non lo rende vincente. Una disabitudine allo scambio, a parlare di cosa si fa, a riconoscere ciò che è stato fatto prima. Un esempio di sistema sportivo e culturale positivo è quello americano, penso che sia quello a cui dobbiamo ambire: qui in Italia abbiamo la possibilità di proporre modelli vincenti, non abbiamo limiti in questo senso, ma non dobbiamo rimanere chiusi alla realtà nostrana”.
Qual è il passo più importante compiuto dalla Fitri in questa fase?
“La Federazione ha cercato di responsabilizzare gli atleti, aspetto fondamentale in uno sport in cui è difficile essere obbiettivi sul livello espresso in gara. Il triathlon non ne facilita la comprensione: a differenza degli sport di prestazione, in cui il cronometro è giudice unico, a seconda di come si evolve la gara si vale da 3 a 10 eppure va trovata una identità. Mettere a disposizione degli atleti dei punti d’appoggio, dei riferimenti assoluti, consente loro capire il valore reale e li spinge ad andare a curiosare, a vedere che cosa succede fuori per poi fare ciò che è funzionale alla loro programmazione: ogni atleta, in pratica, si crea un pacchetto in base alle proprie necessità”.
Quali dovrebbero essere le ambizioni della Nazionale italiana?
“Dobbiamo mirare a portare atleti competitivi alla prossima Olimpiade, non solo ad avere atleti al via, non possiamo fare soltanto presenza. Nel 2004, nella prova femminile, abbiamo mostrato una certa competitività, dobbiamo avere quel risultato come obiettivo minimo”.
Qual è il valore aggiunto che può fornire Joel Filliol?
“Non ci sono pregiudizi da parte sua, guarda esclusivamente al futuro, può impostare tutto al di là di condizionamenti del passato. La sua progettualità definita contrasta con il precedente approccio del triathlon di alto livello e olimpico in Italia, ma pone gli atleti in una condizione di reale approccio elitario e responsabilizzante. Questo è anche un modo per identificare e differenziare l’attività di alto livello da tutto il resto, diventa una sorta di marchio. Ammetto che nessun tecnico dell’area italiana potrebbe arrivare a questa condizione. Con obiettivi chiari e passi ben definiti per centrarli, gli atleti non ragionano sulla posizione al traguardo, ma sul raggiungimento di un risultato all’interno della stessa: questo porta ad avere un taglio mentale superiore”.
In altri sport, il sistema dei gruppi di lavoro è radicato da tempo: gli squad cambieranno il triathlon?
“In Italia il triathlon è uno sport piccolo, denso di realtà in cui il rapporto allenatore-atleta è 1-1. In sostanza, non ci sono allenatori che vantano una lunga storia alle spalle e non c’è una reale trasmissione del sapere e i club sono spesso composti da pochissimi atleti. Nel nuoto, ad esempio, negli ultimi 10 anni, si sono diffusi ampiamente i gruppi di lavoro, come quello di Philippe Lucas a cui ha preso parte anche Federica Pellegrini, il polo di Marsiglia, il gruppo internazionale Dirk Lange. In America si sceglie il tecnico, non il club, costa ma si decide con con chi lavorare; ormai negli Usa ci si muove per gruppi di lavoro, David Marsh ha impostato un concetto simile a quello degli squad italiani, Gennadi Touretski, ex allenatore di Popov, è disponibile a pagamento per periodo di rifinitura per l’impostazione tecnica. E nell’atletica, da Carl Lewis in avanti, i gruppi di lavoro sono sempre stati presenti”.
Fonte: www.fitri.it
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