Disturbi alimentari nello sport: una riflessione
Ho iniziato a fare sport forse ancora prima di nascere. La mia è sempre stata una famiglia di sportivi. A partire da mio padre, insegnante di educazione fisica, allenatore di pallacanestro femminile e docente I.S.E.F. (per intenderci: quella che oggi è la Facoltà di Scienze Motorie). Lo era anche mia madre, pur non praticando alcuno sport, per il semplice fatto che, finché non siamo stati autonomi negli spostamenti, era lei ad accompagnare me e i miei fratelli rispettivamente a nuoto, a pallacanestro e a canottaggio.
Insomma, posso dire con certezza che sono cresciuta a pane e sport.
Ed è stato proprio nel periodo in cui nuotavo a livello agonistico che mi sono imbattuta per la prima volta in una di quelle situazioni che oggi conosciamo come disturbo alimentare.
Erano per me e per le mie amiche della squadra i primi anni dell’adolescenza, quelli in cui inizi a domandarti chi sei, a cercare la tua identità anche fuori dall’acqua clorata e dalle aule scolastiche. E, soprattutto, a vedere il tuo corpo che cambia, cresce, si modella. Prende forma. Evento ancora più evidente in una disciplina come il nuoto in cui c’è un’esposizione del proprio corpo.
Osservavo questa mia cara amica dimagrire, o meglio perdere peso in maniera rapida, come se qualcuno la stesse mangiando da dentro. Quando tentavo di chiederle spiegazioni, non solo non avevo risposta, ma percepivo allungarsi la distanza tra di noi. Sentivo la presenza di una dissonanza, ma la consapevolezza acerba della ‘me’ adolescente non mi permetteva di capire. E comunque nemmeno gli adulti intorno a me erano in grado di raccontarmi cosa stesse accadendo.
L’ho compreso qualche anno più tardi, quando la nebbia intorno al concetto di disturbo alimentare ha iniziato a diradarsi. Nonostante ancora oggi si faccia fatica a parlare di questo argomento, bisogna riconoscere che in merito si sa di più e si inizia a lavorare in maniera solida in ogni ambito quotidiano per creare una cultura che, all’atto pratico, significa fare prevenzione. E quando dico ‘in ogni ambito’ intendo anche l’ambiente sportivo.
Disturbi alimentari nello sport: i comportamenti
Quello dei disturbi alimentari nello sport è un vero problema che affligge sì la performance, ma ancora prima la salute fisica e mentale dell’atleta. E colpisce donne e uomini, senza distinzione (anche se le atlete sono statisticamente le più coinvolte), dall’età giovanile a quella adulta. Il comportamento comune è inizialmente quello di mangiare meno, rinunciare al cibo, anzi, userei il termine “evitarlo”, col fine – spesso solo apparente – di ridurre il peso corporeo per essere più leggeri e veloci. Un risultato, quello del basso peso, che potrebbe avvantaggiare (e notare il condizionale) in linea teorica le prestazione delle discipline di trasporto come corsa, marcia, ciclismo, triathlon, solo per citarne alcuni.
A volte può capitare che alla rinuncia del cibo seguano altri disturbi (abbuffarsi e successivamente rigettare, assunzione di lassativi per ridurre l’assorbimento delle calorie): tutte pratiche che hanno l’obiettivo sia di ricercare nel più breve tempo possibile il peso ottimale di gara sia di mantenere nel tempo uno stereotipo di forma fisica che nella mente dell’atleta appare ottimale. Ma che in realtà tale non è.
È noto infatti che un’eccessiva riduzione dell’assunzione di energia può alterare la salute dell’atleta. I pericoli più frequenti nelle situazioni di disturbi nutrizionali sono l’aumento del rischio di fratture da stress e, nello specifico per le donne, l’alterazione del ciclo mestruale – e quindi alterazione ormonale – fino alla scomparsa del flusso (amenorrea).
Bassa disponibilità energetica (LEA): i rischi
Per bassa disponibilità energetica (LEA) si intende un deficit tra calorie a disposizione e la richiesta, in termini di dispendio energetico, da parte dell’esercizio. Il risultato è la compromissione dei processi fisiologici. In pratica se l’organismo non ha sufficiente energia per far fronte a tutti i suoi impegni, da qualche parte deve risparmiare, così disattiva alcuni processi che in quel momento non sembrano essere primari nella vita dell’atleta ma che hanno comunque a che fare con la salute.
I problemi di salute associati a LEA includono: disfunzioni mestruali nella donna e alterazione della libido nell’uomo, problemi gastrointestinali, cardiovascolari e ossei.
Come prevenire?
Prevenire è possibile. E per farlo è fondamentale allenare il benessere mentale – e non solo quello fisico – dell’atleta. Le persone che gli sono attorno (dal coach ai famigliari) possono adottare una serie di strategie che partono proprio dal linguaggio. Perché, come ricordava Nanni Moretti nel suo film Palombella Rossa, ‘le parole sono importanti’.
Come parliamo, come ci rivolgiamo all’atleta, come lo invitiamo a ragionare diventano fondamentali.
- Valutare la prestazione, non il risultato. Come mi hanno trasmesso gli amici del Centro Studi in Psicologia dello Sport, una semplice sfumatura può cambiare un evento, una situazione o un sentimento. Le parole possono essere lo strumento attraverso cui diamo voce a pensieri, emozioni e giudizi; possono guidare le azioni, i comportamenti. E cambiarci la vita. Il consiglio è quello di aiutare l’atleta a creare un confine tra chi è e cosa fa: contribuisce a ridurre l’ansia e l’atteggiamento giudicante, spesso alla base dello sviluppo dei disturbi alimentari.
- Evitare di associare il risultato al peso corporeo. Può capitare infatti di creare un rapporto causa-effetto tra peso leggero e prestazione ottimale. Questa prestazione, in verità, può essere legata a una variazione di peso circoscritta nel tempo; se però questa variazione rimane prolungata nel tempo, ovvero diviene cronica, gli effetti sulla prestazione (e ancor prima sulla salute) saranno deleteri. A dimostrarlo alcuni studi su buoni maratoneti: le loro prestazioni peggiori sono state associate al peso più basso.
C’è sempre un peso corporeo definito come peso forma che rappresenta il rapporto ottimale tra massa muscolare e massa grassa. Si tratta di un valore del tutto personale e legato ad alcune variabili come la stagione meteorologica e la stagione sportiva. Il peso forma infatti si raggiunge progressivamente nel tempo, durante l’annuale periodo agonistico. - Educare i giovani atleti a un rapporto sano col cibo evitando giudizi. Non esistono cibi buoni né cattivi, potremmo invece definire i cibi come più vantaggiosi o meno vantaggiosi. Una definizione che non solo ci fa comprendere che tutti gli alimenti appartengono a un’unica famiglia – quella del nutrimento – ma anche percepire che tutti sono concessi, a patto di stabilire la quantità e la frequenza di assunzione. È anche importante abbandonare il cliché del cibo come ‘premio’ o ‘punizione’. È insito nella natura umana punirsi evitando di consumare un cibo e premiarsi concedendosi un cibo. Se ci fermiamo a riflettere comprendiamo da subito che si tratta di un meccanismo che induce a uno schema mentale errato. Il cibo è gioia, piacere, condivisione e tale deve rimanere. Concedersi un alimento che potremmo definire ‘del giorno di festa’, nella giusta misura diventa un momento di allegria e puro godimento, dove allentiamo le tensioni. Uso spesso il parallelo con l’allenamento sportivo affermando che lo sgarro alimentare sta all’alimentazione come il giorno (o la sessione) di risposo sta all’allenamento: è proprio il recupero ad attivare gli stimoli allenanti eseguiti nelle sessioni precedenti.
- Monitorare il ciclo mestruale. Tra le prime risposte dell’organismo a una carenza di energia c’è l’alterazione ormonale che si riflette sul ciclo mestruale. Questo evento, caratteristico della sfera femminile, è anche un’opportunità per meglio gestire gli stimoli allenanti. Sappiamo infatti, per riportare un esempio, che eseguire un allenamento per la forza muscolare nei 2-3 giorni che precedono il flusso non è vantaggioso ai fini dell’efficacia dell’allenamento per via della sfavorevole situazione ormonale in cui si trova l’organismo. Affermo spesso infatti che il ciclo mestruale, per tanto tempo demonizzato in ambito sportivo, si rivela una vera e propria opportunità. L’invito per i tecnici è quindi di monitorare, attraverso applicazioni come Training Peaks o le piattaforme dei più comuni sportwatch, il ciclo mestruale dell’atleta, con il duplice vantaggio di ottimizzare gli stimoli allenanti e di identificare preventivamente un’alterazione ormonale.
- Imparare a gestire l’ansia. Il denominatore comune nelle persone che sviluppano disturbi nutrizionali è l’ansia. Spesso alla base c’è una personalità fortemente autocritica che ambisce a una (utopica) perfezione. Questa agitazione potrebbe anche essere generata come risposta ad alcuni eventi traumatici come lutti o altre esperienze forti nella vita quotidiana. Cercare di entrare in sintonia con il vissuto dell’atleta permette di identificare questi stati emotivi. In questo caso il supporto di uno psicologo dello sport diventa prezioso per insegnare tecniche di gestione dell’ansia e lavorare su eventuali malesseri personali che potrebbero essere alla base dei disturbi nutrizionali.
In conclusione
Alla luce di questa riflessione è evidente che parlare contribuisce a fare prevenzione poiché significa creare cultura, riconoscere precocemente. Il primo passo? Partire da noi stessi, lavorare sul linguaggio, sul valore delle parole, senza dare per scontato alcun pensiero.
Grazie a chi ha letto fino in fondo questo articolo carico di sentimento. Spero vivamente di aver contribuito a fornire qualche prezioso strumento per favorire il benessere di chi fa e di chi promuove lo sport.
Credits photo: @Valentina Celeste
Elena Casiraghi - 2023-02-14 14:44:43