Le salite impossibili
È vero che esistono salite impossibili oppure dobbiamo imparare a scoprire che in realtà nulla è impossibile grazie alla nostra testa? Questo articolo non ha l’ambizione di parlare su come affrontare le salite, in primo luogo perché esistono già fiumi di inchiostro (o di byte, se vogliamo restare in campo) a riguardo, ma soprattutto perché l’argomento […]
È vero che esistono salite impossibili oppure dobbiamo imparare a scoprire che in realtà nulla è impossibile grazie alla nostra testa?
Questo articolo non ha l’ambizione di parlare su come affrontare le salite, in primo luogo perché esistono già fiumi di inchiostro (o di byte, se vogliamo restare in campo) a riguardo, ma soprattutto perché l’argomento “salite” è già stato molto ben analizzato dai migliori atleti e preparatori sportivi del pianeta.
Sappiamo tutto ma proprio tutto sul “come si deve fare”: la cadenza, lo stile di pedalata, l’idratazione, gli zuccheri, il giusto rapporto, il giusto approccio iniziale per non bruciarsi subito le gambe e soffrire nella parte finale, tutto. Eppure ogni tanto anche questo “tutto” non basta, o meglio, ci serve tirar fuori dell’altro per uscirne vivi (tra virgolette) dalla montagna che abbiamo di fronte.
Ecco, oggi invece vorrei parlarvi di quelle salite impossibili quando tutto sembra troppo, tutto contro, tutto al di sopra delle nostre possibilità, tutto che grida a gran voce: “ma chi me l’ha fatto fare!”.
A volte capita di incontrarla inconsapevolmente quella velenosa salita, magari alla fine di un lungo giro, o magari perché ci eravamo convinti che, svoltando da quella parte, avremmo accorciato di molto il nostro giro dato che le gambe erano ormai già stanche. Molte altre volte invece ci buttiamo in modo semi incosciente (ma d’altronde la passione è tale solo se strettamente non gestibile) in imprese che viste dal di fuori sono prive di ogni logica e buon senso.
La strada sale, sale, sale ancora. Insistentemente forziamo la nostra leva destra che ci ricorda impassibile che già da tempo il pignone più grande è stato innestato (nel caso in cui il pignone sia uno solo ve la siete davvero cercata, ok?). Le gambe non girano proprio più, quella cadenza rassicurante di cui parlano i libri è un lontano ricordo. Resti solo con te stesso, la bici e quel che resta delle tue gambe. Hai solo più un’ultima, unica ed essenziale risorsa: la testa.
Proprio perché la testa deve portarci su è necessario che la parte cattiva dei nostri pensieri venga scacciata via (tranquilli, non parto con un trattato di new age). Mai farsi prendere dalla paura o dal panico, è lì che si ha il vero tracollo completo. Di fatto ci si può dire tutto, ma non che si è in pericolo di vita, dove la paura (quella vera) può giocare il ruolo per la quale ci è stata instillata, ovvero salvarci la pelle. Qui si tratta di focalizzare i pensieri su quello che veramente conta e scoprire che in realtà contano pochissime cose. Quello che ho sperimentato funzionare davvero è focalizzarsi il più possibile sul presente. Non conta quanta strada/dislivello abbiamo fatto, men che meno conta quanto ancora dobbiamo farne, anzi è in quell’occasione che potremmo cedere e spaventarci: alzare lo sguardo e vedere quel puntino bianco lassù e sapere che quello è il caseggiato in cima al tal colle che dobbiamo raggiungere può abbatterci e farci mollare o anche solo incuterci troppo timore reverenziale (perché un po’ la montagna te lo deve dare, esige rispetto, sempre).
Invece la strategia mentale deve limitarsi ad una piccola porzione, a quei 30-50 metri che ci separano dal prossimo tornante. Sono alla nostra portata, li possiamo “mettere in cascina” come si dice, ed arrivare per un istante a provare quel briciolo di soddisfazione ad aver superato l’ostacolo, un piccolo ostacolo ma fondamentale per l’intera scalata. Ma non gongoliamo, subito dopo di nuovo occorre concentrarsi sul prossimo settore, una nuova rampa, magari più pendente della precedente ma lì di fronte a noi. Se è un lungo rettilineo funziona piuttosto bene crearsi una serie di riferimenti intermedi, in maniera tale da completare un segmento alla volta ed illuminarlo come “completato” nella nostra testa. Funziona.
Tornando più ad aspetti tecnici, trovo sia utile impostare un certo tipo di pedalata, ovvero la classica “spingi e tira” (non so se sia un marchio registrato ma qualcuno potrebbe pretendere un copyright). Dicevamo prima che la corretta cadenza da salita, diciamo 50-60 rivoluzioni per minuto, è ormai un pallido ricordo, allora come andare avanti? Come trovare quella forza nelle gambe che sembra mancare. Unico rimedio è quello di iniziare ad usare il maggior numero di muscoli possibile, creare una sorta di collaborazione tra tutte le fibre e farci superare questa dannata salita. Il trucco è abbastanza semplice ma attuabile solo con i moderni pedali a sgancio rapido, che ormai sono praticamente dotazione essenziale di qualunque ciclista amatoriale. Il gesto a me ricorda molto quello che si fa togliendosi i classici guanti di gomma che si usano per lavare i piatti: una mano (quella guantata) tira indietro e l’altra che afferra il guanto spinge in avanti. Nello stesso modo si può fare con i pedali. Da seduti e con le mani ben salde sul manubrio in presa alta, la gamba che spinge giù nella pedalata, quella abituata sin da piccoli a questo gesto, viene affiancata dalla gamba in risalita che deve mettercela tutta per tirare su il pedale, con il massimo della forza che quei muscoli consentono, di modo da alleggerire la fatica dei quadricipiti che spingono giù e creare la rotazione delle pedivelle. Il movimento deve essere lento e costante, se avete un cardiofrequenzimetro questo dovrà indicarvi delle pulsazioni ben al di sotto della vostra soglia cardiaca, altrimenti significa che siete alla soglia di un vero e proprio malessere e quindi diventa saggio fermarsi.
Anche su questo ultimo aspetto vorrei sfatare un mito. Certo non mettere il piede a terra è motivo di orgoglio. Ma molto peggio è il mettersi a camminare trascinando a mano la bici o peggio girarsi e tornare indietro, quindi siate sereni, ci si ferma, si beve un sorso d’acqua (fondamentale) si aspetta un paio di minuti e si torna ad affrontare la nostra sfida. Unico consiglio: abbiate l’accortezza di fermarvi in un punto in cui sia agevole il riprendere a pedalare agganciando al volo i pedali, solitamente un tornante è il punto perfetto a meno che vi troviate sul Mortirolo (versante Mazzo in Valtellina, ovviamente…).
In fondo sono pochi piccoli accorgimenti, ma tali che nel loro insieme, sono convinto, vi aiuteranno come hanno aiutato me quando avevo la netta sensazione di non farcela e stavo per gettare la spugna. Di sicuro vi ritroverete in cima ripetendovi come un mantra: “mai più…mai più”. Ma poi andrà a finire che il lunedì mattina, in ufficio, sarete lì a sbirciare su google maps qualche nuovo itinerario che possa nuovamente mettervi alla prova, in fondo, quella splendida maledetta salita l’avete già domata il weekend appena passato.
Claudio - 2018-11-22 11:35:58