“Quando manca l’obiettivo” – riflessione etimologica sulle emozioni degli atleti senza una meta
OBIETTIVO: dal latino iacio, iaci, ieci, iactum, iacere= lanciare e ob= davanti. Lanciare davanti.
Sì, ma che cosa? Un sogno, una sfida, un progetto, un lavoro, una carriera, una gara. Magari LA gara, tipo quella delle Olimpiadi su cui hai costruito e impostato gli ultimi 4 anni della tua vita.
Quando si vuole un cambiamento, o anche solo stare meglio nei propri panni, qualsiasi terapeuta, mental coach, o libro di auto-aiuto suggeriscono una cosa da fare, come primo passo: “Fissa degli obiettivi”. Piccoli, piccolissimi anche; i macro-obiettivi vanno suddivisi in altri pezzi, realizzabili nel breve, medio e lungo termine. Anche a scuola le programmazioni si fondano sempre e comunque su una suddivisione in traguardi più piccoli da raggiungere, un passo dopo l’altro.
Progettazione, pianificazione… Gli allenatori fanno un lavoro minuzioso con queste due parole-chiave, trovando sempre una sorta di equilibrio tra la crescita (fisica, psicologica, umana) della persona, e i suoi obiettivi.
ATLETA: dal greco (non riesco a mettere gli accenti), derivato di = lotta, gara, competizione. In una definizione aggiungono: “L’atleta, quindi, è colui che è proteso nello sforzo di superare la sfida sportiva ma, ancor di più, nello sforzo di superare se stesso”.
Quest’anno, per ovvi motivi, queste due parole non sono più andate di pari passo. Tutti gli atleti, professionisti e amatori, hanno dovuto scontrarsi con una realtà diversa. Come ho scritto nel precedente articolo, tendenzialmente gli atleti (soprattutto i PRO) sono bravi a reinventarsi, ad adattarsi ai cambiamenti, a trovare nuovi obiettivi su cui concentrarsi. Non mollano e stanno sempre sul pezzo. Perché, prima o poi, da questo momento se ne uscirà. E si tornerà a gareggiare.
Ok, niente Giappone, ma a settembre si parla di ricominciare. Perciò si aumentano i ritmi, si va in ritiro in altura. Poi cancellano una gara, e un’altra ancora. Smarrimento, delusione. Ma quella dopo forse la faranno, dicono abbiano trovato una soluzione, ci sono buone probabilità… Si rimane attaccati ad un filo. La stanchezza inizia a farsi sentire, soprattutto quella mentale. Doveva essere un anno decisivo e ora invece è un anno di passaggio. Ma l’attenzione è rimasta sempre alta, prima nell’incertezza totale, poi negli allenamenti chiusi dentro casa, nella perdita di confidenza con l’acqua da recuperare, nella ripresa dei ritmi.
Di solito, gli atleti sanno con esattezza com’è strutturato il loro anno: da novembre a novembre, ossia da un periodo di off-season al successivo. Sanno quando sono i periodi di carico, quelli di scarico, sanno quando devono essere al top per una gara, se e quando possono permettersi di “mollare il colpo”, sanno quando stanno per arrivare le “ferie”.
Di questo 2020 non si sa ormai più nulla. Non lo sanno i professionisti, non lo sanno gli amatori. E per nessuno è semplice procedere così. Si resta attaccati a quel filo di speranza, ci si continua ad allenare pensando che lo si fa per quella gara, quella che ancora non è stata cancellata. Se poi questo periodo ha portato problemi grossi anche nel lavoro, con la testa ci si è ancora meno, e si lascia senza troppe remore, perché se quando fai sport non sei totalmente presente… rischia di diventare anche pericoloso.
Ma questo è, le cose non si cambiano, quest’anno è andata così. E magari qualcosa di buono lo possiamo trovare lo stesso.
Serviva forse uno stacco anche dalle competizioni, dallo spirito del dover dare sempre il massimo, del dover fare sempre di più. Per una volta, le parole “atleta” e “obiettivo” si possono leggere anche non insieme, senza che questo pregiudichi l’essenza dell’uno o dell’altro. Si può essere atleti, amatori o professionisti, anche senza una gara precisa, senza un reale traguardo da raggiungere. Perché la cosa bella della vita è che è fatta di tanti aspetti, e se in questo momento non ci si può concentrare su uno di quelli… è cosa buona e giusta dedicarsi anche a tutto il resto.
E poi, fatevelo dire da una che ha imparato a nuotare, pedalare e correre senza alcuno spirito agonista e senza alcuna intenzione di partecipare ad una gara: fare sport così, senza ansie, senza tempi, senza lavori specifici, ha un suo perché. Ti godi la natura, se vuoi soffrire soffri, se sei stanco rallenti, se piove e fa freddo puoi anche scegliere di dedicarti alla lettura comodamente seduto sul divano. E soprattutto, puoi andare veramente in vacanza. Non in vacanza con la bici da corsa dietro incastrata tra i seggiolini dei figli, o con cuffia e occhialini perché “fare il bagno” diventa l’allenamento in acque libere. Questa è l’estate, per tutti i triatleti (e le loro famiglie) di una vacanza come si deve.
Ovviamente parlo per tutti gli altri: io e Fabian siamo ancora quelli attaccati ai fili delle gare non cancellate, e visto che a settembre io rientro a scuola… Anche quest’anno noi la vacanza insieme la faremo un’altra volta (forse)!
raffaella - 2020-10-02 14:50:16