Cervino Matterhorn Ultra Race, una gara da ripetere
15-17 luglio 2022
Qualcuno mi ha suggerito di trasformare la delusione e l’amarezza in rabbia e determinazione, e di convogliarle nella prossima gara. Che sarà il Tor, peraltro, mica una garetta da niente… Che poi da niente non lo era neppure questa Cervino Matterhorn Ultra Race. Sottovalutata da tanti, probabilmente anche dalla stessa organizzazione, che aveva dato l’arrivo dei primi concorrenti in 25 ore. E invece i più forti, mostri sacri del calibro di Andrea Macchi e Galen Reynolds, di ore ce ne hanno impiegate 33. E 38 minuti per la precisione. Sono arrivati insieme, come due fratelli, stanchi ma evidentemente soddisfatti di aver portato a termine un’impresa titanica. Correre per 170 chilometri sotto un sole micidiale, tra prati in stile Heidi che si alternano a infinite distese di sassi, paesaggi lunari e tratti di ghiacciaio, e scegliere di arrivare insieme, è qualcosa di meraviglioso e insieme stupefacente. In pochi, pochissimi sport, accade. Questo è il mondo delle ultradistanze. Che obbliga le persone a conoscersi, a esplorarsi, che fa gioire, disperare, piangere, commuovere, e che alla fine ti porta a gesti che, per un atleta di qualsiasi altra disciplina, sarebbero inimmaginabili. E forse neppure avrebbero senso. Si è mai vista al Giro d’Italia o in un Ironman una cosa del genere?
Le Ultra sono competizioni che ti mettono alla prova. Sono viaggi interiori, si sa. Che ti cambiano in alcuni casi. Smontano castelli e abbattono barriere. E alla fine, spesso, chi le corre si porta a casa un bagaglio di esperienze e consapevolezze, più che la vittoria. Al di là del risultato, che è solo un numero. La maggior parte di noi, “comuni mortali” che corriamo le ultra, ambisce alla medaglia finisher. Il fatto di tagliare il traguardo è, già di per sé, il traguardo più ambito. Chi non appartiene a “questo mondo” fatica a capirlo. Il ritiro è contemplato, messo in conto fin dal primo chilometro, ma cerchi sempre di non pensarci troppo. Fino a che non ti si presenta davanti, a muso duro, nella forma di un cancello orario che sai già non riuscirai a passare. Il momento preciso del ritiro è un mix di tristezza e sollievo. La delusione, quella vera, arriva a qualche ora di distanza. Di questa cavalcata estrema (170k e 13000 D+) mi sono goduta solamente i primi 63 chilometri e all’altezza del Lac Moiry ho capito che non sarei arrivata a Zinal in tempo per passare il cancello orario.
Per la seconda volta nella mia (seppur corta!) carriera da runner, lo stomaco ha deciso di imporre le sue regole e di inchiodarmi testa e gambe, rallentando eccezionalmente l’andatura nei primi 40 chilometri. Il caldo, micidiale nonostante la quota, non ha poi migliorato la situazione, che è andata risolvendosi solamente la sera del primo giorno di gara, con il calo delle temperature. In discesa verso Arolla, dopo essermi goduta tutta la magnificenza e la grandezza dell’omonimo ghiacciaio, avevo ancora la speranza di farcela. Correvo (finalmente riuscivo a correre!) alla luce della Fenix (la frontale) e persino le gambe, stanche e pesanti durante la giornata, parevano essersi riprese. Poi, l’incontro dopo il paesino di Les Haudères con alcuni atleti che sostenevano si aver saltato la base vita del cinquantesimo chilometro e le chiamate succedute con l’organizzazione, mi hanno fatto perdere l’ora e mezza che, in discesa dal ghiacciaio di Arolla, ero riuscita a recuperare. La gara si era trasformata, in altri termini, in una corsa contro il tempo, con il terrore di vedere arrivare, alle mie spalle, le scope. Che poi, proprio le scope, sono arrivate per davvero dal momento che gli atri concorrenti erano stati bloccati al cancello posto alla base vita del cinquantesimo chilometro. E così, con le scope “alle calcagna”, sono arrivata fino a poco più di 60 chilometri.
Fine dei giochi, quando ancora mancavano qualcosa tipo 100 chilometri al traguardo. E cosa rimane di un’esperienza del genere? Ho avuto la necessità di metabolizzare, riflettere e pensare, prima di potermi esprimere con lucidità. Venuta meno l’amarezza per essermi ritirata prima che l’organizzazione prendesse la decisione di allargare gli ultimi cancelli, sono a chiedermi se la rifarei. Certo che sì. Rimane la voglia di finirla perché è lì, come un tarlo nella testa che continuerà a scavare lento, silenzioso ma inesorabile fino al 2023. Rimane la speranza di riuscire a tornare su questo tracciato che è, per la mia esperienza, il più duro ma anche il più bello che abbia mai percorso. Rimane la consapevolezza che le crisi, tutte le crisi, hanno un inizio ma hanno anche una fine, e che quindi bisogna saper tenere duro. Questo sarà un grande insegnamento in vista del Tor. “Perché tanto poi” – come dice il Coach Begnis, preparatore atletico con studio in provincia di Bergamo e che mi “segue” in queste follie – “Prima o poi passano e riparti”.
La data dell’edizione 2023 è già stata fissata e sicuramente l’organizzazione ha preso le misure per correggere le eventuali, piccole mancanze, della prima. Una competizione di quelle da inserire nella propria agenda di ultratrailer e, con tanto allenamento e un pizzico di fortuna, anche nel palmarès.
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