Alessandro Gallo, un Marco Polo in bici dalla Cina a Venezia
Dalla Cina all’Italia in bicicletta. Un anno di viaggio, 16000 km percorsi, più di 20 paesi attraversati e soprattutto emozioni a non finire.
È questa l’avventura cicloturistica vissuta da Alessandro Gallo, padovano emigrato a Shanghai, che un bel giorno ha deciso di tornare a casa via terra. A colpi di pedale.
Il viaggio lo ha compiuto qualche anno fa, ma è una di quelle avventure che è sempre bello raccontare.
Alessandro, cosa ci facevi in Cina?
Ai tempi lavoravo a Milano per un’agenzia di moda. Le agenzie di moda sono in contatto con tutto il mondo. Io volevo fare un’esperienza all’estero e chiesi di essere trasferito da qualche parte. “Ma dove vuoi andare?”, mi prese in giro il mio capo. “Ma vai in Cina, va!”, disse per ridere. Io lo presi sul serio. E così mi trasferii a Shanghai. Ci sono rimasto 8 anni. Amo confrontarmi con culture diverse dalla mia. O ce l’hai, o non ce l’hai questa pulsione. Io sapevo che avevo solo da guadagnarci.
Come è nata l’idea di viaggiare in bici?
Durante i miei otto anni in Cina avevo visitato diverse regioni, anche il Tibet, ma sempre spostandomi in aereo, e poi visitando la regione zaino in spalla.
Mi mancava un po’ l’avventura in autonomia. Durante uno di questi viaggi – mi trovavo nel Sud Est Asiatico con la mia ragazza – prendemmo un pullman e con noi salirono dei ragazzi vestiti da ciclisti. A un certo punto li vidi scendere dal bus, tirare fuori le loro bici dal portabagagli e allontanarsi pedalando. “Ecco come viaggiare in autonomia!”, mi dissi. Fu amore a prima vista.
E da qui il viaggio fino all’Italia?
Ogni volta che da uno dei miei viaggi tornavo a Shanghai, città fatta di grattacieli, asfalto e traffico, sentivo la nostalgia della natura.
Da qui il desidero di voler tornare a casa facendo via terra la via che avevo sempre sorvolato. Infatti una volta all’anno tornavo in Italia in aereo. Ad autunno decisi di rifare quella strada in bici. Trascorsi l’inverno a mettere da parte i soldi necessari e a pianificare il viaggio. La primavera successiva partii.
Come hai deciso la traccia?
C’erano alcuni luoghi che avrei voluto visitare, come la Pamir Highway e l’Iran. Feci in modo di inserirli nell’itinerario di massima che avevo studiato. Ma non avevo nessuna traccia gpx né alcun navigatore gps. Avevo una mappa cartacea generale della Cina e una dell’Asia Centrale. In India compravo le cartine di ogni regione. Erano mappe a scala poco dettagliata per un viaggio in bici. Le utilizzavo in abbinata a GoogleMaps sul mio smartphone. Poi, parlando con altri cicloviaggiatori che incontrai durante il viaggio, venni a conoscenza di MapsMe, una app che usa i dati di OpenStreetMap e che può essere utilizzata anche offline. Il problema in molti dei paesi che ho attraversato era la connessione. Spesso non ce l’hai. Quando ero nelle città più grandi e avevo segnale, scaricavo le mappe delle regioni successive e così potevo navigare anche offline. Non avevo una traccia fissata. Ogni giorno sceglievo secondo l’estro. Magari vedevo un passo che mi portava su un altipiano e allora mi portavo in quella direzione. Poi c’è da dire che in alcune zone remote la strada è una sola, tutto intorno hai la steppa o la natura selvaggia. Non c’è il rischio di sbagliare strada…
Quanto è durato il tuo viaggio?
Ci ho messo un anno. L’intenzione era metterci 4 mesi. Poi quando sei lì dici: “Chi me lo fa fare di andare di fretta?” Stavo in alcuni luoghi e visitavo la regione con calma, soprattutto tra l’attesa di un visto e l’altro. Questo viaggio è stato l’avventura più bella della mia vita. Senso di libertà, di meraviglia. Ogni giorno sei immerso in panorami completamenti diversi. Questo per l’anima è qualcosa che risveglia il nostro dna nomade. L’uomo sa adattarsi a qualsiasi evento e clima. Basta essere flessibili. Senza la paura che a volte ci prende.
Il luogo più affascinate che hai attraversato?
Le zone più remote di Tagikistan e Kirghistan, a 4000 metri d’altitudine. Mi capitava di incnotrare al massimo tre persone o veicoli al giorno. Ma lì vige la legge non scritta del deserto: quando si incontra qualcuno, ci si ferma sempre, ci si saluta e ci si chiede se c’è bisogno di aiuto.
In generale tutti i paesi, o per un verso o per un altro, mi hanno lasciato qualcosa. La stessa Cina, visitata nella sua parte più remota, fuori da Shanghai, mi ha stupito oltre a quello che avevo conosciuto nei miei otto anni di soggiorno. Fai conto che ci ho messo 3 mesi per uscire. L’ho attraversata da est a ovest.
Che bici avevi?
Avevo una bici in acciaio fatta fare su misura quando sono tornato dal mio primo viaggio in backpacking nel Sud-Est Asiatico. I ragazzi che avevo visto sul bus avevano bici che non avevo mai visto. Io ero abituato alla bici da corsa, alla mtb, alla trekking ibrida. Da lì mi si è aperto un mondo.
Oggi le bici in acciaio per viaggiare sono popolari. Io ne feci fare una da un artigiano in Veneto. Avevo montato ruote da 26”, che nei paesi del terzo mondo sono lo standard più popolare. Telaietti portapacchi e quattro borse pannier da viaggio, due anteriori e due posteriori.
Dove hai dormito?
Mi ero organizzato per essere autosufficiente. Avevo un sacco a pelo pesante, una tenda per le intemperie, e il fornello da campo. Sapevo che avrei trovato anche temperature fredde. La parte di Cina che ho attraversato proprio all’inizio del viaggio era molto industrializzata, e lì dormivo ospitato dalla gente o in ostelli economici. Parlavo cinese e riuscivo a trovare i posti pochi turistici dove si paga poco.
Nelle steppe, ti accampi dove vuoi. Sono stato ospitato più volte nelle tende iurte dei pastori seminomadi che si muovono con mucche e cavalli. Hanno stufe alimentate con lo sterco dei loro animali.
Il piatto più originale che hai mangiato?
Io sono vegetariano e in molti di quei posti mangiano carne di pecora per colazione, pranzo e cena. È stata un po’ dura sotto quel punto di vista per me… il piatto tradizionale dell’Asia Centrale è fatto con la carne di pecora e all’ospite spetta la testa…
La Cina per quanto riguarda il cibo, è divisa in due. Frumento a nord, riso a sud. A nord ci sono i lamian, gli spaghetti freschi fatti con le uova e tirati a mano. Sembra quasi una magia come li fanno, per il sincronsimo dei movimenti della mano del cuoco. È probabile che Marco Polo abbia preso ispirazione da loro e abbia importato in Europa la pasta fatta in casa. In Uzbekistan invece è famoso il pane fatto al forno. È un forno con un buco centrale, posto in alto. Ho fatto incetta di pane lì.
E con l’acqua come facevi?
La prendevo dai torrenti. Avevo il filtro e le pastiglie per purificarla. Ma non è bastato per evitarmi in tre occasioni dei disordini di stomaco.
Quante lingue hai imparato?
Parlavo l’inglese. Avevo imparato un po’ di cinese. Ho dovuto imparare qualche parola di russo per sopravvivere. In mezzo ai monti, Google Translate non sempre funzionava. Avevo però scaricato un piccolo dizionario di russo offline. In Persia parlano solo farsi, quasi nessuno parla inglese. Il Persiano è una lingua stupenda, ha un suono melodico. Io mi esprimevo a gesti.
Come hai fatto con i visti?
Iniziavo la procedura di richiesta online attraverso caravanistan.con, un sito specializzato proprio per il rilascio di visti nei paesi della via della seta. Lì capivo a in quali uffici locali dovevo recarmi. Di solito le ambasciate si trovano sempre nelle capitali. A volte, nonostante la richiesta anticipata, si aspetta una settimana prima di ottenere il permesso.
Parallelamente, leggevo sempre le notizie per tenermi informato sulla situazione politica dei vari paesi. Per entrare in alcune zone serve un permesso speciale da inoltrare al governo. A volta va un po’ a fortuna. Ci sono governi che la settimana prima concedono il visto e quella dopo no.
Sei ancora in contatto con qualcuno conosciuto durante il viaggio?
Come no! Ho tanti amici cinesi su Wechat. Di recente ho sentito un amico iraniano conosciuto a Teheran mentre passeggiavo in città, lui si era avvicinato a me parlando italiano. Stava studiando italiano perché voleva venire in Italia a studiare l’opera. Ora vive a Vicenza. Poi ci sono dei ragazzi in Azerbaijan che mi scrivono regolarmente.
Come è stato tornare a casa?
Una volta che sei in giro, non vorresti più tornare. Vivi in un mondo così… così reale, che diventa difficile accettare la vita artificiale che ci siamo costruiti nelle città moderne. Ti sembra quasi impossibile che possa esistere questo livello di felicità e libertà. Ho messo in discussione tutto della mia vita. Più mi avvicinavo in Europa, più percepivo questo pensiero. Certo, in quei paesi esiste anche tanta povertà, la gente vive della terra che coltiva, ma si tratta di gente dove non esiste separazione, si è tutti solidali l’uno con l’altro e c’è sempre una grande umanità.
Non ti nascondo che appena sono tornato ho vissuto qualche periodo di disorientamento. Dovevo reinventarmi e non sapevo come. Un viaggio del genere ti cambia, ti trasforma. Poi fai fatica a farti andare bene quello che credevi fosse normale.
Lo rifaresti?
Lo rifarei sì. Se penso alla felicità e alle emozioni che ho vissuto. Ora però sto dando priorità ad altre cose, però l’intendo è quello di prepararmi ad altri viaggi. Anche se oggi dopo il Covid il mondo è cambiato. C’è più paura tra le persone. Percepisco tanto contrasto tra la mia libertà vissuta e la situazione corrente. Non sarei sereno a viaggiare libero come ho fatto allora.
Oggi cosa fai?
Ho rispolverato la mia passione per la fotografia e la voglio utilizzare per la realizzazione di un progetto. Il Cai e il CNR stanno collaborando per creare una rete di rifugi sentinella, ovvero delle mini stazioni di rilevamento atmosferico per monitorare i cambiamenti climatici. Saranno distribuiti in tutto l’arco alpino e anche in quello appenninico. Voglio raccontare la storia dei rifugi attraverso le mie foto e sensibilizzare così le persone sul tema dei cambiamenti climatici.
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