Homo faber o Homo ludens? L’evoluzione ai tempi dello Sport…

Homo faber o Homo ludens?  L’evoluzione ai tempi dello Sport…

Redazione ENDU

– Marco Benedetti (Scuola Formazione e Ricerca MySDAM) La Settimana Europea dello Sport appena conclusa, il mite inizio autunno e le ore di luce ancora generose con chi si allena all’aria aperta, tengono lontana la sedentarietà delle pigre letture invernali, letture tra cui non dovrebbe mancare un classico della letteratura sportiva, quelle “Mémoires Olympiques” che Pierre […]

4 Ottobre 2017

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– Marco Benedetti (Scuola Formazione e Ricerca MySDAM)

La Settimana Europea dello Sport appena conclusa, il mite inizio autunno e le ore di luce ancora generose con chi si allena all’aria aperta, tengono lontana la sedentarietà delle pigre letture invernali, letture tra cui non dovrebbe mancare un classico della letteratura sportiva, quelle “Mémoires Olympiques” che Pierre de Coubertin diede alle stampe tra il 1931 e il 1932, preziosa testimonianza del lavoro instancabile a cavallo di due Secoli, un lavoro che portò nel 1896 ai primi giochi olimpici dell’era moderna, quelli svolti ad Atene.

E la modernità del pensiero e delle intuizioni di quello che si può considerare a tutti gli effetti se non tra i più grandi pedagogisti, sicuramente tra i più influenti nell’aver proposto un modello formativo universalmente condiviso dalla società di massa, lo sperimentiamo quotidianamente davanti alle scuole dei nostri figli, con genitori ansiosi e preoccupati di scegliere questa o quella disciplina per favorire uno sviluppo fisico armonioso nei giovani o viceversa favorirne la capacità di socializzazione e di condivisione delle regole.

Lo sanno bene le decine di allieve e allievi della Scuola Formazione e Ricerca MySDAM che in questi anni hanno frequentato i corsi per diventare Timer o Manager del cronometraggio, ai quali è ben noto quale sia stata la genesi del fenomeno sportivo da De Coubertin ai giorni nostri.

Ma prima di arrivare ai giorni nostri, pagina dopo pagina delle Memorie, partiamo dal XIX secolo, con la formazione dei primi stati nazionali orientati ad una massiccia industrializzazione, in cui dall’Illuminismo si era ereditata una nuova consapevolezza scientifica del corpo umano, un corpo rinnovato nella sua carica fisica e culturale, in cui l’attività fisica del tempo, caratterizzata da cure ginnastiche e salutistiche è finalizzata ad un preciso impiego sociale: quello nei processi produttivi a cui il corpo dei nostri trisnonni si deve applicare per aumentare lo sviluppo economico delle Nazioni.

Si era passati dal lavoro nei campi all’aria aperta, in spazi relativamente ampi, al lavoro nelle fabbriche, fianco a fianco, stipati come nel caso delle filande inglesi in cui a inizio Ottocento in un unico salone saturo di umidità lavoravano tra le 250 e le 300 operaie fino a 18 ore consecutive.

Lo sport di allora era funzionale alla teoria lavorista che doveva assecondare la crescita e il consolidamento delle emergenti realtà capitalistiche e industriali, e i circoli dopolavoro ante litteram promuovevano questa dimensione sportiva in quello che veniva definito Homo faber, atomo indispensabile di questo sistema sociale.

Sport utile sicuramente, ma non sempre divertente quello a cui poteva accedere l’Homo faber, che da parte degli organizzatori sportivi di allora, era visto come unità di quel Capitale umano che andava applicato al Capitale economico, con una dinamica di crescita lineare dei fattori produttivi del tempo.

Dovevano passare alcuni decenni perché l’offerta sociale di sport si modificasse divenendo più simile ai giorni nostri…

Idealmente torniamo al 1897, anno in cui in Inghilterra si festeggiavano i 60 anni di regno della Regina Vittoria, il cosiddetto Jubilee, festeggiamenti particolarmente allegri per l’allora 23enne Winston Churchill che, secondo le cronache di allora, li trascorse bevendo l’adorato Plymouth gin e scommettendo alle corse dei cavalli, brindisi interrotti dagli echi di guerra che provenivano dalle Indie britanniche dove un esercito di insorti afgani stavano minacciando il dominio britannico sulla colonia indiana.

E mentre il giovane ufficiale dell’esercito inglese era in viaggio in treno per raggiungere il teatro della battaglia a nord di Delhi, praticamente al confine con l’attuale Pakistan, consegnò al suo diario una riflessione che ben ci aiuta a capire come avvenne nello sport il passaggio da Homo faber a Homo ludens.

Churchill si rivolgeva così al fratello “…alle mie spalle, nella regione di Bangalore, meno di 500 soldati inglesi sorvegliano una regione abitata da oltre 12.000.000 di indiani, una distanza come quella che separa l’America dall’Inghilterra…, una immensa distesa di terra fertile e popolosa retta e amministrata da noi. Un dominio completo e minuzioso ottenuto da così pochi dominatori!”.

Dispiace dirlo, le Nazioni che si trasformarono in grandi Imperi coloniali diedero una nuova valenza sociale e culturale al corpo, un corpo che aveva bisogno e necessità di svago e divertimento. A fianco del produttore di beni e servizi nasceva la nuova percezione sociale dell’Homo ludens che conduce sì le sempre più operose attività economiche e politiche del tempo, ma in un climax sociale che giustifica il bisogno e la necessità di condurre attività di svago e divertimento, senza dimenticare che dopo aver educato il corpo ad una dimensione individuale, non trova più sufficiente l’impegno ginnico motorio, cercando bensì Regole, Norme, Valori.

Ecco, la nostra attività motoria si è definitivamente trasformata in Sport.

Sport che deve facilitare nel soggetto lo sviluppo delle qualità morali indispensabili per i sudditi degli Imperi coloniali di allora, come il gusto della lotta (civilmente regolato), l’aspirazione al successo, il bisogno di migliorarsi, lo spirito di sacrificio, il coraggio e la sicurezza psicologica: queste erano le valenze ideologiche che la nuova società di fine Ottocento desidera dallo Sport.
Da questi due modelli il barone francese Pierre De Coubertin, attraverso le moderne Olimpiadi nel 1896 ad Atene, portò quindi alla definizione di una socialità nuova che vedeva lo sport occupare un suo specifico spazio, sì specifico ma in continua evoluzione, con valori universalmente accettati attraverso i quali l’atleta condivide e tutela risorse intellettuali, morali e fisici, rendendo socialmente desiderabile la dimensione sportiva.
Una desiderabilità sociale che, tradotta in cifre, vede nel nostro Paese una comunità di praticanti non solo in chiave agonistica (con 4.500.327 atleti tesserati da 64.829 società sportive) ma soprattutto inteso come strumento di crescita collettiva ed economica, con 17.715.000 italiani dai 3 anni in su che dichiarano di praticare uno o più sport nel tempo libero, con un indotto economico di 5 miliardi di euro, 1.051.879 volontari impegnati nella realizzazione di eventi e 88.614 lavoratori retribuiti che animano le 92.838 istituzioni non profit sportive che organizzano e promuovono corsi e manifestazioni sportive sul territorio.

 

Ph: Francesca di Majo – Servizio fotografico Roma Capitale

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