Il Tor des Geants di Michele Quagliaroli
Nei giorni del Tor des Geants ha tenuto con il fiato sospeso non solo i suoi compagni di squadra del “Vengo lì… di corsa”, ma anche gli sportivi di Parma, tutti incollati a facebook per seguire in tempo reale gli aggiornamenti che arrivavano dalla Valle d’Aosta. Un’attenzione meritata per Michele Quagliaroli, ultratrailrunner da circa tre […]
Nei giorni del Tor des Geants ha tenuto con il fiato sospeso non solo i suoi compagni di squadra del “Vengo lì… di corsa”, ma anche gli sportivi di Parma, tutti incollati a facebook per seguire in tempo reale gli aggiornamenti che arrivavano dalla Valle d’Aosta. Un’attenzione meritata per Michele Quagliaroli, ultratrailrunner da circa tre anni, che con il tempo di 86h04’ è riuscito nell’impresa di arrivare decimo assoluto (ma praticamente a pari merito con il nono, il francese Christophe Anselmo) e terzo tra gli italiani in una delle gare più dure al mondo: 330 km e 24mila metri di dislivello positivo, con partenza e arrivo a Courmayeur.
Michele è di Corniglio, un paese sull’Appennino parmense. È riservato e poco incline alla popolarità, ma ha accettato molto gentilmente di fare due chiacchiere con noi, per raccontarci la sua esperienza al “Tor” e, più in generale, la sua passione ENDU.
Michele, si dice che quella per le ultratrail sia per te una vera e propria passione. Com’è nata?
Sono di Corniglio, in Appennino ci sono nato e camminare il montagna mi è sempre piaciuto. Tre anni fa, quando ho smesso di giocare a calcio, mi è capitato di fare qualche trail e da lì è nata la passione.
Ci hai messo poco per passare dai trail alle ultra.
Si vede che sono portato per gli sport di resistenza. Non mi piacciono le gare corte. Preferisco quando c’è da faticare, magari dopo aver già corso 30-40 km. Mi piace quando c’è da soffrire un po’.
E come la gestisci questa sofferenza?
A testa bassa. Quando la fatica o i dolori arrivano, semplicemente evito di pensarci. Penso ad altro, a tutto il resto. Penso al lavoro, alle donne, agli amici, mi perdo a guardare la natura che mi circonda. Va bene tutto e ogni volta i pensieri di fermano su qualcosa di diverso. Così la fatica scompare.
E tu sapevi già che al Tor des Geants avresti dovuto faticare parecchio.
Sì, per me non era la prima volta. Dopo alcuni trail in valle d’Aosta avevo deciso di partecipare già nel 2015, con mio zio. L’obiettivo era giusto quello di arrivarci in fondo, senza pretese di tempo. Quell’anno però la gara fu sospesa dagli organizzatori a causa del maltempo quando eravamo a circa 80 km dall’arrivo. Hanno fatto la scelta giusta e ci hanno comunque riconosciuto lo stato di finisher, ma è stato un peccato non arrivare alla fine, anche perché stavo bene.
Così hai pensato bene di rimetterti subito alla prova con altre ultra.
Sì, devo dire che, soprattutto nel 2016, ho fatto tante gare: la Lavaredo Ultra Trail, la Transvulcanica, il Monte Rosa, il Cervino, la Maremontana.
Quanti km hai fatto?
Non ho tenuto il conto, anche perché raramente accendo il Gps quando corro. So che faccio in media due ultra da 50 km al mese e, a parte il mio giorno di riposo che è il lunedì, corro tutti i giorni, che sia fuori strada, in strada o in pista. Un amico francese mi ha preparato una tabella con gli allenamenti, ma devo dire la verità, seguo più le mie sensazioni. Se un giorno non ho molta voglia di correre mi fermo a 40’, altrimenti posso stare fuori anche 2-3 ore.
E se gli amici mi invitano per un aperitivo scelgo gli amici. Allenarmi mi piace, così come mi piace fare le cose seriamente, ma per me la corsa non è una malattia.
Nel 2016 però hai deciso di riprovarci e ti sei iscritto ancora al Tor des Geants.
Anche alla 4 km, due settimane prima. Ma quella volta è andata male: i medici mi hanno fermato per una flebite e così ho dovuto saltare entrambe le gare.
Nemmeno questo però ti ha scoraggiato.
Direi di no. Appena mi sono ripreso ho continuato a fare gare e devo dire che, anche se qualche gara non è andata benissimo, mi sono tolto parecchie soddisfazioni. Ho corso il Trofeo Mezzalama, una gara di sci d’alpinismo, probabilmente la più bella al mondo; ho fatto la Marathon des Sables e, nell’ultimo mese, la Tds e il Tor.
Ci hai riprovato ancora, allora.
Non potevo non farlo. Quest’anno però ero deciso a farlo bene. Non volevo solo “provare”. Preferivo soffrire e magari scoppiare sapendo di aver dato il massimo piuttosto che arrivare alla fine con la consapevolezza di essermi risparmiato.
E così hai fatto.
Ho fatto il possibile. Sono partito forte e, a parte i primi due che erano davvero di un altro Pianeta, sono sempre rimasto nel gruppo dei primi 6-7. Al 150 km però ho iniziato ad avere problemi al polpaccio e questo mi ha fatto perdere un po’ di tempo e soprattutto il ritmo. Quando riprendi dopo una sosta subentra il sonno, la stanchezza, ti adegui al passo di chi magari va più piano di te, anche se comunque sono rimasto nei primi 10. Su 86 ore di gara ne ho dormite solo 3. Non mi era mai capitato prima di affrontare gare così lunghe e non ero preparato a gestire dei microsonni, quindi ho cercato semplicemente di dormire il meno possibile e tenere duro.
Hai mai pensato di mollare?
Certo, arrivato a 230 km. Ero distrutto. Il polpaccio mi faceva malissimo e avevo la febbre alta. Mi ha preso lo sconforto. La testa è una brutta bestia: quando c’è riesci a non sentire la fatica, ma quando non c’è il dolore e la stanchezza sono amplificati. Ci hanno pensato Claudio Chiarini e mio fratello Mattia, che mi aspettavano al punto vita, a convincermi a ripartire e devo dire che sono ripartito ancora più determinato e carico di prima. Dopo 5 minuti la fitta al polpaccio, che poi ho scoperto essere strappato, nemmeno la sentivo più. Se non ci fossero stati loro non ce l’avrei fatta.
Cosa hai pensato correndo gli ultimi km che ti separavano dal traguardo?
Che non vedevo l’ora di arrivare per abbracciare tutti quelli che, in 86 ore, mi hanno seguito e hanno fatto il tifo per me. Mi hanno dato una mano enorme. Gli ultimi km sono volati. Quando sono arrivato al traguardo ho abbracciato Claudio e non c’è stato bisogno di dire nulla. Erano tutti contenti per me, sapevano quanto ci tenessi.
Dopo gli abbracci sono andato a bermi una birra.
Qual è stata la difficoltà maggiore al Tor des Geants?
Al Tor è tutto duro: la mancanza di sonno, la distanza, le salite. Ma anche le discese. Tutti parlano del dislivello positivo di 24.000 mt ma ce ne sono altrettanti di dislivello negativo e vi posso garantire che quelle discese spezzano le gambe forse ancora più delle salite.
E poi gli sbalzi di temperatura. In valle arrivavi anche a 24 gradi, e io soffro molto il caldo, mentre in quota, di notte, si scendeva a -3, -5 gradi. Abbiamo corso col vento contro, con il buio. Insomma, non è una passeggiata.
La cosa più bella, invece?
A parte le montagne, che sono uno spettacolo continuo, la cosa più bella è l’entusiasmo che ti trasmette la gente: i valdostani, i volontari che trovi sul percorso sono straordinari, fanno un tifo esagerato!
Cosa ti ha lasciato il Tor des Geants?
Vediamo… una borsite al ginocchio, un’ernia inguinale e lo strappo al polpaccio. Scherzi a parte, mi ha lasciato la consapevolezza di avere al mio fianco 4-5 persone che mi vogliono un gran bene, sono più che amici e sono quelli che fanno la differenza.
Lo rifarai ancora?
Lo rifarei, sicuramente. Se lo rifarò non lo so. Adesso ho altre gare in programma, a ottobre, e poi solo sci d’alpinismo fino a marzo.
Programmi per la prossima estate?
Sdraio e ombrellone a Riccione. Quest’anno non ho fatto un solo giorno di mare e se l’anno prossimo non recupero rischio che la morosa mi molli prima di settembre!
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