Ogni traguardo è fatto di emozioni. Il racconto di Simone alla Ultra Trail del Lago d’Orta
Oggi è Simone a raccontarci la sua esperienza alla Ultra Trail del Lago d’Orta. Un racconto emozionante, che vi consigliamo. Buona lettura! Omegna. Non riesco a dormire. Tutti sono nel dormitorio, su comodi materassini gonfiabili, su brandine accoglienti e avvolti da caldi sacchi a pelo. Io no. Non ho nulla di tutto ciò. Il solito disorganizzato. Però […]
Oggi è Simone a raccontarci la sua esperienza alla Ultra Trail del Lago d’Orta.
Un racconto emozionante, che vi consigliamo.
Buona lettura!
Omegna.
Non riesco a dormire.
Tutti sono nel dormitorio, su comodi materassini gonfiabili, su brandine accoglienti e avvolti da caldi sacchi a pelo.
Io no.
Non ho nulla di tutto ciò. Il solito disorganizzato. Però il bar di fronte ha delle comode poltrone anni ’70, in splendido similpelle.
Sarà la mia casa, fino all’ora della vestizione e delle ritualità del caso.
Leggo Topolino, e Paperinik mi strizza l’occhio.
Iscriversi all’Utlo come rivincita alla debacle del lago di Como mi sembra improvvisamente una pessima idea.
È ora.
Indumenti, porta pettorale, controllo del materiale nel mio (splendido) zaino.
Le ultime decisioni sugli indumenti da mettere. Si parte alle 23 e per me è un mondo sconosciuto. Avrò freddo?
Vado in bagno e mi rapo la testa. Mi rilassa.
Mi avvicino alla partenza con Alfio. Si sbircia qualche stand, si chiacchiera con altri atleti e con il personale dell’organizzazione.
Tuttavia io non sono lì. Annuisco, e sicuramente risulto antipatico.
È sempre così. Mi si stringe lo stomaco e pensare a 120 km mi confonde.
Qualche messaggio a Ilenia mi rilassa. È nel mio zaino e viaggerà con me.
Punzonatura. Speaker, musica.
Applausi, abbracci benauguranti.
Mi piego sulle ginocchia e guardo l’asfalto. Che ci faccio qui, in mezzo a questi veterani delle ultra trail? Dove voglio andare con i miei allenamentini sul Canto? E poi guardali: sono l’unico con la frontale semplice. Tutti hanno l’aggeggio dietro la nuca. E quello è vestito meno..e quello..Via!
La prima notte la voglio ovattare. Deve passare come i grissini al ristorante.
Metto le cuffie e mi isolo. La prima salita di 1100 metri passa e l’unico esercizio è seminare un concorrente che vuole fare il simpaticone.
Testa bassa e si sale al Mottarone.
La notte è accesa dallo spettacolo delle frontali che mi precedono, lassù, e di quelle che scruto, qualche tornante più in basso. Saluto e ringrazio ogni singolo volontario che incontro durante il tragitto. Sono moltissimi, appollaiati su cocuzzoli, ai ristori, ad ogni bivio. Sono infreddoliti, ma sempre sorridenti. Questa gara rappresenta l’eccellenza dell’organizzazione. I segnali sul percorso si susseguono ogni pochi metri e le strisce carta rifrangenti non lasciano nessun dubbio di notte. Ogni sasso che spunta dal terreno e ogni radice che può rappresentare un minimo pericolo sono evidenziati da un segno arancione. Ormai l’ho imparato: su queste distanze meglio scegliere gare con un team all’altezza.
Scendo con i soliti dolori addominali che mi perseguitano nelle prime discese e alle 4.15 sono di nuovo a Omegna. Ritrovare un paese e delle case dopo cinque ore è piacevole. La montagna, di notte, mi fa sentire piccolo.
Il cancello è fissato per le 6.00. Questo è andato.
Dopo il ristoro si riparte. Da qui, fra poco più di due ore, partirà la 82 km. Chissà quando mi raggiungerà il primo atleta di questa distanza, e chissà quale compagno della Carvico Skyrunning mi saluterà da dietro.
Ricaccio indietro i dubbi che da giorni mi assillano: perché sono l’unico della squadra sulla 120?
Ora arriva la seconda parte della gara. Mentalmente ho suddiviso il percorso in quattro parti e quella che mi attende è la più dura: 43 km con 3500 d+. Poi ci sarà la base vita ad Arola. Ma quello sarà un altro libro, sconosciuto e tutto da scrivere.
Sulla salita al Mazzoccone ho una crisi di sonno. Sono le 5 e barcollo. Sento cinghiali a pochi metri da me e mi si raddoppia la vista. Non riesco a tenere gli occhi aperti e provo a camminare tre passi sonnecchiando per poi aprire un secondo le palpebre. Ma i sassi non perdonano e cado.
Voglio fermarmi e dormire un poco. Ma dove? Qui nel bosco? Per poi risvegliarmi infreddolito e indolenzito? No, meglio stringere i denti e provare a tenere il passo dell’atleta davanti a me.
Mi pizzico le guance e le gambe.
Forse passa. Una pendenza ancora più dura fa il resto e mi sveglio.
Albeggia mentre salgo al monte Croce. Qualche passaggio leggermente tecnico è sufficiente per mettere a dura prova la mia scarsa confidenza con rocce e tratti esposti.
Scendo a Fornero, km 49. Sono le 8.30.
La mia tabella di marcia è rispettata ampliamente e dopo il ristoro parto per la salita più dura della gara. Il monte Croce si fa desiderare e durante la salita riesco anche a cadere in un piccolo dirupo.
Cominciano a superarmi i concorrenti della 82 km. I primi sono velocissimi e comunico ad ognuno la posizione che sta occupando. Da qui in poi si mischieranno anche atleti della 57 km e della 34 km. Siamo tutti sulla stessa barca: la sofferenza non guarda il colore del pettorale.
Mi supera anche Giordano, un compagno di squadra. E’ 17esimo!!
Discesa, poi su all’Alpe Sacchi e alla cima successiva. Poi giù verso la base vita di Arola.
Ci arrivo alle 15, dopo 16 ore di gara. Sono abbastanza provato ma lì ad aspettarmi c’è Ilenia, che si fa in quattro per supportarmi (e sopportarmi) in tutto ciò di cui ho bisogno. Riparto con indumenti nuovi e l’idea che il più è fatto. Ma il mio corpo si lamenta e mi mette sul piatto un’altra crisi di sonno. E’ tardo pomeriggio e l’unico desiderio che ho è buttarmi a terra e chiudere gli occhi. Non cado comunque in tentazione e avanzo, superando anche questa crisi.
Nella salita successiva devo accendere di nuovo la frontale. Infilo di nuovo le cuffie e verso le 21 sono a Grassona (km 97). Ogni salita, ora, sembra infinita. Anche un dislivello di soli 300 metri mi mette a dura prova ma, come già successo in gare precedenti, riesco comunque a correre bene nei tratti piani e supero qualche atleta. Corro con atleti di diverse distanze, a volte precedendoli e dettando il passo e altre seguendo passivamente chi, davanti a me, sfuma il buio della notte con la luce della frontale.
Alzo gli occhi e vedo sempre la stessa scena: le strisce carta rifrangenti guidano lo sguardo sulla salita che sarà, e più in alto vedo il bagliore di altre frontali degli atleti che mi precedono.
A Cesara mangio ancora minestra e riparto per gli ultimi 14 km.
Mi aspetta l’ultima salita che alla fine identifico come un drago che mi vuole divorare. Ma non mi lascio prendere, mi divincolo e scappo. E’ solo questione di poche ore e non posso mollare proprio ora. Cado e un francese mi chiede se va tutto bene. La discesa successiva è un calvario che ricorderò a lungo. Bramo l’asfalto, i tetti delle case, un campanile. Tutto però tace e rimango ancora a lungo nei boschi.
A 5 km dal traguardo Ilenia si fa trovare presso un piccolo ristoro tra gli alberi. Come ha fatto ad arrivare fino a lì? Ci diamo appuntamento a poco dopo.
Tocco l’asfalto, attraverso una strada. Nonostante sia l’una di notte molte persone sono lì, ad incitarmi.
Il lungo lago. Le luci del traguardo laggiù. Le gambe che girano bene.
Chiudo i bastoncini, levo la frontale. E’ fatta.
Il palco. Ilenia con uno striscione che mi fa inumidire gli occhi.
Non ci capisco più nulla. So solo che è finita, e ce l’ho fatta.
Ci sono sfumature in me che dimentico troppo spesso di avere, ma sono lì, pronte ad mostrarsi all’occorrenza. E’ per questo motivo che adoro Utlo 2017.
120 km
7300 d+
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