Matteo Torre: “Lo sport ci rende migliori, ma non facciamone un’ossessione”

Matteo Torre: "Lo sport ci rende migliori, ma non facciamone un'ossessione"

Laura Ugolotti

Volere è potere, si dice. Ma è proprio vero? Si può iniziare a correre partendo da zero e arrivare al traguardo del primo Ironman dopo soli 2 anni? Senza saper nuotare e senza essere mai stato su una bici da corsa? Matteo Torre ci è riuscito e adesso insegna agli altri come fare. Anche se, ci […]

17 Luglio 2017

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Volere è potere, si dice. Ma è proprio vero? Si può iniziare a correre partendo da zero e arrivare al traguardo del primo Ironman dopo soli 2 anni? Senza saper nuotare e senza essere mai stato su una bici da corsa?
Matteo Torre ci è riuscito e adesso insegna agli altri come fare. Anche se, ci tiene a dirlo, lo sport non deve mai essere un’ossessione.

Matteo, oggi sei un preparatore atletico, aiuti le persone a raggiungere il loro obiettivi. Un percorso che tu hai vissuto in prima persona.

Esatto. Dico la verità, in generale sono sempre stato uno sportivo, ho sciato, giocato a basket, sono andato in mtb. Poi qualche anno fa ho cambiato lavoro, mi sono trasferito: non solo non avevo più il tempo per allenarmi, ma ero spesso in viaggio, o a cena con i clienti. Per sette anni non ho più fatto nulla. Sono passato dalla taglia 44 alla 50 senza quasi rendermene conto. Una mattina, era la fine del 2010, mi sono svegliato, mi faceva male tutto, la schiena, le ginocchia e mi sono detto “Adesso basta!”. Succede così, scatta qualcosa e trovi la motivazione per prendere in mano la tua vita e cambiare. Così ho pensato di mettermi a correre. Ho iniziato come tutti, prima 15’, poi 30’, poi un’ora, la prima 10 km. Poi ti viene voglia di migliorare il tempo, e poi di aumentare la distanza, fino a 21km. Dopodiché sogni una cosa sola: la maratona.

E’ a questo punto che qualcosa è cambiato.

Sì, preparando la maratona finivo sempre con il farmi male. All’ennesimo infortunio il mio osteopata mi ha consigliato di recuperare con nuoto e bici. Mi sono detto: se devo farlo per forza, tanto vale provare con il triathlon. E visto che quando sogno, sogno in grande, mi sono dato subito come obiettivo la distanza più impegnativa: l’Ironman.

Un sogno ambizioso…

Parecchio ambizioso, anche perché all’epoca non ero mai stato su un bici da corsa e per preparare l’Ironman ho debuttato direttamente con quella da crono, non proprio la bici più semplice da gestire. Ho perso il conto delle cadute. In acqua, poi, mi limitavo a galleggiare. Non sapevo nuotare. A settembre 2011 mi sono iscritto a un corso: una seduta a settimana al sabato, con le signore, a fare le bolle a bordo vasca. La costanza però ha pagato: due anni dopo ho nuotato nell’oceano per 3,8 km in 1h17’. In occasione del mio primo Ironman, in Florida, il 1° novembre del 2013.

E’ proprio vero che “Volere è potere”.

Sempre. Sento tante persone dire a se stesse: “Non ce la farò mai”. Non ce la fai se nemmeno ci provi. Se ti ci metti, ci puoi riuscire.

Ci credi al punto tale che ne hai fatto un lavoro.

Diciamo che ho saputo trasformare la mia passione per lo sport, e per il triathlon in una professione. Ho seguito il percorso formativo della Fitri, la Federazione Italiana Triathlon, raggiungendo il livello di istruttore prima e di allenatore poi. Sono una persona estremamente curiosa, non mi accontento mai di quello che so, quindi ho studiato tanto, ho seguito corsi di aggiornamento, mi sono confrontato con i colleghi e ho maturato esperienza sul campo. Oggi sono un tecnico, di triathlon ma non solo. Aiuto gli amatori a confrontarsi con le lunghe distanze. Al di là della prestazione sportiva, faccio in modo che lo sport diventi un elemento in grado di dare equilibrio alla loro vita. In questi anni ho aiutato oltre 200 persone. Quando tagliano il traguardo mi dicono “Grazie” ed è ovvio che è una soddisfazione, ma a loro rispondo sempre che le gambe e la fatica ce le hanno messe loro.

Come li aiuti a superare i loro limiti?

Dipende da loro, davvero. Non lo ordina il medico di andare più veloce o di correre più chilometri e se un atleta non ne ha il desiderio, è più che legittimo, non è affatto un disonore, al contrario di quello che pensano in molti. A fare la differenza è l’automotivazione, quando dentro di te scatta il desiderio di fare qualcosa. E’ quella la molla che ti spinge a intraprendere un percorso, che non può e non deve essere fine a se stesso. Lo sport non deve diventare un’ossessione, deve semmai migliorarti come persona, farti prendere maggiore consapevolezza di te stesso. Il risultato sportivo, così, è solo la conseguenza di un equilibrio che sta alla base.

Una volta che scatta la molla, come li prepari?

Fortunatamente la tecnologia ci viene in aiuto. Oggi i gps ci forniscono dati dettagliati, oggettivi e personalizzati, sulla base dei quali definisco gli obiettivi e pianifico la preparazione, su misura. Poi però entra in gioco l’aspetto relazionale: al traguardo arrivano da soli ma, prima, allenatore e atleta devono fare un lavoro di squadra. Una volta che lo impari, questo ti aiuta anche nella vita, nel lavoro, negli affetti.

Aiutare gli altri ti ha fatto smettere di gareggiare?

Assolutamente no. Mi diverte, mi piace, non vedo perché dovrei smettere. Anzi, ho scoperto una nuova dimensione, che è quella di gareggiare con i miei ragazzi. Vivere con loro l’esperienza del pre gara, la preparazione, la zona cambio, incrociarsi durante la corsa o aspettarli al traguardo è un’esperienza densa e profonda. In questi anni comunque ho accumulato una ventina di mezzi Ironman, tre maratone, qualche ultratrail, una Gran Fondo e cinque Ironman. A settembre correrò il sesto. L’obiettivo è arrivare a 12 e strappare il biglietto per i mondiali di Kona, alle Hawaii.

 

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