La fatica è una questione mentale

La fatica è una questione mentale

Redazione ENDU

“A tired brain can have nearly as much impact on athletic performance as muscle exhaustion” questa è la conclusione di uno studio condotto da Samuele Marcora (un italiano, ndr), direttore della School of Sport and Exercise Sciences presso l’Università del Kent in Inghilterra. Quando il cervello ci abbandona, difficilmente riusciamo a prolungare lo sforzo eppure, se […]

22 Settembre 2016

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A tired brain can have nearly as much impact on athletic performance as muscle exhaustion” questa è la conclusione di uno studio condotto da Samuele Marcora (un italiano, ndr), direttore della School of Sport and Exercise Sciences presso l’Università del Kent in Inghilterra.

Quando il cervello ci abbandona, difficilmente riusciamo a prolungare lo sforzo eppure, se riuscissimo ad allenarlo, ci porterebbe fino al traguardo prima ancora di esaurire la forza fisica. Tutto questo è dimostrato da uno studio scientifico che è tuttora sottoposto ad aggiornamenti.

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La teoria, che Marcora definisce “modello psicobiologico di tolleranza allo sforzo”, non è altro che una revisione e approfondimento di un altro studio dello scienziato sudafricano Tim Noakes, il quale sosteneva che la fatica è un fenomeno che si manifesta quando il cervello manda dei segnali ai muscoli, informandoli di essere privi di forza. Secondo Marcora, la percezione della fatica è un meccanismo di regolazione che ci rallenta ancora prima che intervengano i limiti biologici. “Non esiste ragione fisica che faccia percepire uno sforzo più duro, se non quando si è mentalmente stanchi” afferma lo scienziato italiano. Per dimostrare la sua teoria, Marcora ha condotto diversi esperimenti. Il primo, nel 2010, su un gruppo di giocatori di rugby: “essendo atleti molto resistenti erano i soggetti migliori” – ha spiegato. I giocatori dovevano sprintare su una bike statica per 5 secondi, subito dopo dovevano continuare a pedalare per un periodo lungo – come se stessero facendo uno sforzo di “endurance” – finché non erano più in grado di mantenere la potenza richiesta (circa 250 watt), quindi dovevano fare altri 5 secondi di sprint. “La loro potenza massima negli ultimi 5 secondi di sprint era diminuita rispetto a quando avevano iniziato il test” conferma lo scienziato, ma erano ancora in grado di produrre una media di oltre 700 watt, ovvero una potenza di gran lunga superiore rispetto a quella prodotta durante il test di endurance. Secondo la psicologia convenzionale gli atleti avevano smesso il loro test di endurance nel momento in cui erano privi di energia, ma in realtà il test dimostra il contrario, poiché gli atleti erano ben lontani dal loro limite fisico. Secondo la ricerca, la fatica non è qualcosa di immaginario, sia il cervello sia il fisico, infatti, mostravano segni di stanchezza come, per esempio, la riduzione di glicogeno. Il punto fondamentale, secondo lo scienziato, è tuttavia far capire agli atleti come si possa prolungare lo sforzo fisico, anche quando il cervello inizia a dare i primi segnali di stanchezza.

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Ci sono altri elementi che sono in grado di influenzare il cervello e indurlo a continuare anche quando sembra di essere giunti al limite fisico: l’attrazione. Secondo degli studiosi dell’inglese Northumbria University anche l’ego maschile, prolungherebbe la resistenza fisica oltre il limite imposto dal cervello. Nello specifico, un campione di atleti maschi doveva correre fino a esaurimento. Alcuni di loro, verso la fine dell’esercizio, dovevano interagire con un assistente di laboratorio, da un lato un’avvenente ragazza e dell’altro un altrettanto attraente e atletico assistente, ma di sesso maschile. Il risultato? Gli atleti che interagivano con l’assistente donna hanno ottenuto un punteggio superiore, rispetto a quelli che dovevano interagire con l’assistente uomo.

photo credits: Mark Sweep through wikimedia commons

photo credits: Mark Sweep through wikimedia commons

Tornando agli studi di Marcora, nel 2013, lo scienziato fece un viaggio in moto da Londra a Beijing, per raccogliere altre informazioni che sono tuttora allo studio. Durante il viaggio, della durata di tre mesi, Marcora ha anche subito un paio di incidenti, uno dei quali gli ha procurato una dolorosa frattura all’anca. Oltre a raccogliere diverse informazioni su dieta, umore, frequenza cardiaca, ecc. ha studiato gli effetti della caffeina sul prolungamento dello sforzo fisico oltre i limiti imposti dal cervello. Ogni giorno prendeva una pillola – alla cieca – alla caffeina o un placebo. Il verdetto? La caffeina ha funzionato, come ci si poteva aspettare, ma non nel modo in cui si pensa normalmente: ha infatti migliorato l’utilizzo del glicogeno, stimolando il cervello e riducendo la percezione dello sforzo.

Attualmente lo scienziato sta studiando gli effetti della mancanza di sonno nell’ultrarunning, l’impatto del caldo sulla fatica e l’uso opzionale della caffeina. Gli studi di Marcora non si rivolgono solo agli atleti, ma hanno uno scopo più profondo: aiutare persone gravemente malate a sopportare maggiormente la fatica quando si devono sottoporre a sedute di chiemioterapia.

Fonte in lingua originale inglese: http://www.outsideonline.com/

Would you like to read the original article? Click here: http://www.outsideonline.com/2112241/your-fatigue-all-your-head

A cura di Anna Celenta

 

 

 

 

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